LEGISLAZIONE GIURISPRUDENZA
il cane affidato a chi dimostra un legame con l'animale- Avv. Simona Bevilacqua
Con la recente ordinanza n. 8459/2023, la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo il quale l'affido del cane o del catto, dopo la fine della relazione, spetta alla parte che dimostri, oltre alla proprietà dell’animale, anche l’esistenza di uno stabile legame affettivo.
In tal modo gli Ermellini sono tornati ad affrontare un tema che, sempre più di frequente, trova spazio nelle aule dei nostri Tribunali; quello dell’affidamento dell’animale domestico in caso di separazione.
Nell’ordinamento italiano non esiste alcuna legge che sancisce l’affidamento del cane, in caso di separazione e divorzio.
La decisione, infatti, deve essere assunta dalle Parti, scegliendo a chi deve essere affidato l’animale domestico.
Tale mancanza normativa, non consente di predisporre dei criteri precisi per l’affidamento.
Peraltro, non costituisce una regola il fatto che l’animale venga affidato all’intestatario del microchip.
Certamente, la soluzione che può aiutare a scongiurare il rischio di una futura discussione sul punto, è quella di redigere una scrittura privata, concordando le regole per l’affidamento.
Del pari, la decisione sull’affidamento dell’animale domestico ben potrebbe essere inserita all’interno di una clausola nell’accordo di separazione.
Nel caso in esame, terminata la convivenza more uxorio, la coppia ha avviato una vera e propria guerra giudiziale, volta ad ottenere l’affidamento dell’animale a quattro zampe.
La donna, infatti, ha richiesto l’accertamento della qualità di comproprietaria dell’animale, acquistato durante la seppur breve convivenza, il conseguente scioglimento della comunione e l’affidamento del cane, oltre al risarcimento dei danni, emotivi e patrimoniali. Al contrario, l’uomo ha negato la comproprietà dell’animale, eccependo la carenza di legittimazione attiva dell'attrice.
Secondo gli Ermellini, la Corte di Appello ha legittimamente escluso l'ammissione del mezzo di prova richiesto dalla ricorrente (l’interrogatorio formale) in ragione della non indispensabilità dello stesso, ritenendo già sufficientemente provata la proprietà dell'animale in capo all'ex compagno, alla luce della copiosa documentazione prodotta, con la quale è stato dimostrato non solo l'acquisto dell'animale e della sua assicurazione, ma anche i documenti attestanti la proprietà e le spese veterinarie compiute in suo favore, laddove i documenti forniti dalla donna consistevano in mere fotografie del cane, insufficienti a smentire quanto dimostrato dall’ex compagno.
Pertanto, la Cassazione, preso atto del fatto che la donna non è stata in grado di dimostrare di aver instaurato un solido rapporto affettivo con il cane “tale da far presumere che le possa essere riconosciuto un diritto di visita nei confronti dell'animale", le ha negato tale diritto.
Una decisione, questa, che, oltre a far riflettere i tanti amanti degli animali, dai quali non ci si vorrebbe mai allontanare, in merito alle decisioni da assumere nel caso di separazione, conferma altresì come la scelta di prendersi cura di un cane o di un gatto, potrebbe poi, non trovare la giusta tutela una volta che la famiglia si disgrega.
Avv. Simona Bevilacqua
Cass. n.6503 del 3.03.2023: l'ascolto del minore. Avv. Anna Lanza
Con la recente Ordinanza del 3 marzo 2023 n. 6503, la Suprema Corte di Cassazione ha preso posizione in ordine alla necessità di rinnovare l’audizione del minore in appello, ove si sia mutata la collocazione e/o l’affidamento dello stesso. La fattispecie prende le mosse dal comportamento ostruzionistico tenuto dalla madre di un minore di 9 anni, rispetto alla figura paterna, dalla quale cercava di allontanare il figlio, tanto da indurre la C.A. di Firenze a disporre l’affidamento esclusivo del minore al padre con collocazione presso lo stesso, valutato come più equilibrato e responsabile, con incontri protetti madre-figlio.
La madre ricorreva in Cassazione, rilevando, nel primo di 5 punti di ricorso, una violazione degli artt. 32 e 111 della Costituzione, degli artt. 3 e6 della Convenzione Europea di Strasburgo sui Diritti del fanciullo, degli artt. 6 e 14 della CEDU, degli artt. 155sexties, 366bis, 337bis, 337ter, 337octies C.C., e dell’art. 1 comma 2 della Legge 206/2021 per aver la C.A. disposto l’allontanamento del minore dall’ambiente familiare abituale, senza aver ascoltato la volontà dello stesso, in quanto capace di discernimento, come si evince dalla circostanza che lo stesso, al momento del ricorso dell’età di 9 anni, era già stato ascoltato dal Tribunale due anni prima, all’età di 7 anni.
La Suprema Corte dichiara fondato ed accoglie il primo motivo di ricorso, in quanto la parte appellante, nel giudizio di gravame aveva più volte richiesto l’audizione del minore con l’ausilio di una C.T.U., affinchè si tenesse conto anche della volontà dello stesso in ordine al suo collocamento presso il padre o presso la madre. La C.A., in contrasto con il principio disposto in Cass. 1474/2021, aveva rigettato l’istanza senza darne esplicita motivazione, limitandosi a dichiarare sufficiente il materiale istruttorio in atti.
Così facendo la C.A., come rilevato dalla Suprema Corte, aveva agito in contrasto con la giurisprudenza di legittimità (ex multis 9691/2022, 12018/2019) secondo la quale ”in tema di affidamento dei figli minori, l’ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, finalizzato a raccogliere le sue opinioni e a valutare i suoi bisogni, dovendosi ritenere del tutto irrilevante che il minore sia stato sentito in altri precedenti procedimenti pur riguardanti l’affidamento”.
Secondo la Corte, quindi, il minore andava sentito, sia per acquisire il suo volere che per analizzare e valutare le ragioni del suo rifiuto verso il padre ed i condizionamenti subiti in questo ambito.
Accolto il primo motivo di ricorso, assorbente rispetto agli altri, la Corte dispone il rinvio del giudizio alla C.A. in diversa composizione, perché si attenga al seguente principio: “nei giudizi relativi alla modifica delle statuizioni sull’affidamento o sul collocamento del minore, tenuto conto anche di fattori quali la modifica della residenza, ove lo stesso sia prossimo alla soglia legale del discernimento e sia stata formulata istanza di rinnovo della audizione, il giudice di secondo grado deve procedere all’ascolto o fornire puntuale giustificazione argomentativa del rigetto dell’istanza stessa.”
Avv. Anna Lanza
Cass. n racc. 4200-23 del 10.2.2023 - Assegno divorzile - Avv. Irene della Rocca
Con una recentissima sentenza, pubblicata il 10.02.2023, la Suprema Corte ha nuovamente affrontato il tema del diritto all’assegno divorzile nel caso in cui la moglie lasci il lavoro dopo il matrimonio, senza un’adeguata motivazione.
Nel caso in esame il Tribunale di Catanzaro aveva negato l’assegno divorzile alla ex moglie, mentre la Corte d’Appello aveva poi stabilito il diritto della stessa a percepire un assegno divorzile di non modesta entità, rispetto al patrimonio delle parti, pari a € 900,00. La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza con rinvio alla Corte di provenienza. La doglianza, accolta dalla Suprema Corte, si è rivolta verso l’omessa valutazione da parte della Corte d’Appello territoriale della scelta operata dalla ex moglie di smettere di lavorare dopo il matrimonio. La Corte di provenienza non aveva valutato quanto la scelta della ex moglie avesse influito sulla disparità economico patrimoniale tra gli ex coniugi, soprattutto avendo riguardo alla natura perequativa - compensativa dell’assegno divorzile, come già ampiamente enucleato con le SS UU 18287/2018, per cui è necessario che per riconoscere l’assegno divorzile che sia effettuato un accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi del coniuge più debole, rapportato alla durata del vincolo matrimoniale (di soli sei anni del caso di specie, valutazione omessa dalla Corte d’Appello di Catanzaro) e alla ripartizione dei ruoli endofamiliari, nonché avendo riguardo al patrimonio personale e/o familiare di entrambi i coniugi (nel caso di specie la ex moglie aveva dei beni della propria famiglia di provenienza)
Alla luce di tutte le valutazioni su esposte la Corte di Cassazione ha deciso di cassare la sentenza, rinviando gli atti alla Corte d’Appello di Catanzaro per valutare correttamente il diritto della ex moglie a percepire l’assegno divorzile e il suo importo, in relazione alla scelta della stessa di non lavorare dopo il matrimonio e alle sue potenzialità reddituali e disponibilità patrimoniali.
Avv. Irene della Rocca
Cass. Civ., Sez. I, ord. 23.1.2023: assegno divorzile - Avv. Anna Bevilacqua
Con la recentissima pronuncia depositata in data 23.1.2023, la Corte di Cassazione ha confermato il principio in base al quale l’ex coniuge che intrattiene una convivenza stabile con l’attuale partner - con il quale porta avanti un effettivo progetto comune, tale da costituire un punto di riferimento anche per il figlio di lei, comprovato da espletata CTU - non ha diritto all’assegno divorzile.
Più in particolare, la Corte ha sottolineato come nella fattispecie la ricorrente ex moglie non possa validamente invocare la funzione perequativo-compensativa dell’assegno, non soltanto perché intrattiene da molti anni una relazione stabile che, evidentemente, le ha consentito di non lavorare e di dedicarsi esclusivamente al volontariato e alla politica, ma anche e soprattutto perché per ben 15 anni non ha mai cercato un lavoro, venendo, così meno ogni esigenza di natura assistenziale da parte dell’ex marito.
La corte ha, altresì, avuto modo di chiarire espressamente che l’effettiva progettualità rappresenta l’elemento costitutivo di una nuova formazione familiare e che questa è l’unica circostanza che l’onerato dell’assegno divorzile deve provare, non essendo, invece, tenuto a dimostrare che il nuovo convivente della ex coniuge contribuisca effettivamente al ménagefamiliare, essendo estraneo ad esso e potendosi ben presumere che la convivenza stabile si fondi su obblighi di assistenza reciproci.
Cass. Civ., Sez. I, ord. 23.1.2023
Avv. Anna Bevilacqua
Bambini in casi di alta conflittualità : quale cambiamento? Daria D'Andreamatteo
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un raddoppiamento dei casi di separazione e divorzio, di cui una buona parte sono percorsi separativi ‘altamente conflittuali’. Solo lo scorso anno al Tribunale di Roma sono arrivati 1.300 nuovi casi di ‘separazioni di fatto’ con elevata conflittualità.
Questi dati confermano quanto osservato nella pratica clinica. Come terapeuta che lavora da anni con il disagio psichico del minore, adolescente o bambino e della famiglia, sono numerose le domande poste in merito al cambiamento di alcune manifestazioni sintomatologiche dei minori e al processo evolutivo di quest’ultimi nonché di alcuni processi comportamentali in conseguenza alla promozione e alla tutela del diritto di bigenitorialità.
Di certo l’elemento della conflittualità acerrima più o meno manifesta, rimane emergente e determinante rispetto ad alcune osservazioni. Analizzando i casi pervenuti presso il centro clinico InsiemeNoi abbiamo osservato una crescita esponenziale delle richieste di valutazione. Negli ultimi due anni sono giunti 96 casi e di questi l’età media dei bambini è tra i 9 e i 12 anni, equamente suddivisi tra maschi e femmine. Di questi, un 10% è stato collocato presso il padre e un altro 10% affidato ai servizi sociali. Il 20% ha rifiutato un percorso terapeutico dopo aver concluso la valutazione; il 23% ha interrotto il percorso una volta attivato, mentre un 10% si è rifiutato di avviare una valutazione subito dopo aver preso contatto con la struttura.
Questi numeri ci mettono di fronte una riflessione importante rispetto all’evidente grado di fallimento che questi percorsi incorrono qualora non si dia priorità alla eventuale riduzione o risoluzione, nel migliore dei casi, del conflitto genitoriale, che necessariamente porta a non vedere e riconoscere i bisogni del minore. Spesso, infatti, sono situazioni che arrivano dopo lunghi e faticosi percorsi di CTU, in cui appare poco chiaro quale sia la differenza tra una valutazione in campo peritale e una valutazione clinica, confondendo spesso i piani o rivolgendosi al clinico come se fosse un giudice che deve stabilire quale sia il genitore più adeguato. Il minore in questione non sembra quindi essere visto dai genitori ma diviene nuovamente e come in ogni situazione, strumento di contesa tra i genitori stessi.
Ma tutto questo come si traduce nel mondo interno del minore? Cosa comporta?
Sono bambini che portano una sofferenza importante e profonda, che si manifesta attraverso una varietà di sintomi, tra fobia scolare, difficoltà nell’addormentamento, ansia generalizzata e attacchi di panico, esplosioni di rabbia e chiusure rispetto all’esterno. Evidenziano un’assenza di centralità conforme al caos e al disorientamento dell’ambiente esterno. Non di rado, infatti, sono proprio i minori ad esprimere una resistenza al trattamento, facendosi porta voce di un desiderio inconscio del genitore, anticipandolo, nell’illusione di evitare una ennesima delusione, essendone lui l’artefice. Forse nell’immagine persecutoria che ne deriva, rispetto ad ogni tipo di intervento proposto, si esprime la profonda difficoltà dell’adulto di oggi di mettere da parte ferite narcisistiche rispetto ad un immagine familiare e del proprio figlio non corrispondenti alla propria. Questo processo necessita inevitabilmente la richiesta di fare un passo indietro, un disinvestimento sul conflitto, non come espressione di una arresa e di una sconfitta, ma come possibilità di cambiamento e di progresso.
Solo così si può dare accesso alla sofferenza del minore e la possibilità di costruire una “casa” solida, affidabile e flessibile rispetto alle esigenze del bambino.