LEGISLAZIONE GIURISPRUDENZA
Efficacia del recesso operato ad nutum sulla casa familiare-Avv.De Falco
La Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n. 350/2023 pubblicata in data 10.01.2023 è tornata ad affrontare la questione relativa all’efficacia del recesso operato “ad nutum” dai proprietari di un immobile precedentemente concesso in comodato al figlio e successivamente assegnato, in sede di separazione, alla ex nuora in qualità di genitore collocatario delle figlie minori.
Nel caso di specie, una coppia di coniugi aveva convenuto dinanzi al Tribunale di Treviso il proprio figlio e la nuora per ottenere da questi ultimi la restituzione di un immobile precedentemente concesso loro in comodato. Gli attori, infatti, deducevano di aver comunicato, in virtù dell’art. 3 del contratto di comodato, il recesso “ad nutum” dal contratto stesso. Nelle more del giudizio di primo grado, tuttavia, le parti convenute si separavano consensualmente e l’immobile de quo veniva assegnato alla ex nuora.
Il Giudice di prime cure, in accoglimento della domanda attorea, accertava l’avvenuta cessazione del contratto di comodato per esercizio del diritto di recesso “ad nutum” contrattualmente previsto e pertanto condannava i convenuti alla restituzione dell’immobile ai proprietari.
Tale pronuncia veniva successivamente riformata dalla Corte di Appello di Venezia la quale riteneva che si trattava “inequivocabilmente di comodato sorto per uso determinato e di conseguenza per un tempo determinabile per relazione in considerazione della destinazione a casa familiare.”
Il Collegio sottolineava come la destinazione dell’immobile a casa familiare fosse “palesata” dal fatto che: il contratto di comodato era stato stipulato pochi mesi dopo il matrimonio dei comodatari (tra cui il loro figlio); la durata del contratto si era protratta per numerosi anni nonché dal fatto che la richiesta di revoca dal contratto giungeva in coincidenza con la disgregazione familiare. La Corte veneta, inoltre, osservava che la clausola di recesso “ad nutum” contenuta nel contratto di comodato era generica ed in contrasto con la causa propria e prevalente del negozio e dunque destinata a rimanere inefficace fintantoché permanesse la destinazione dell’immobile a casa familiare.
Avverso tale decisione i proprietari dell’immobile proponevano ricorso per Cassazione lamentando che la Corte di Appello avrebbe ingiustificatamente negato valore alla clausola del contratto che prevedeva il diritto di recesso “ad nutum” ritenendo, al contrario, sussistente il diritto di recesso solo per urgente e imprevedibile bisogno del comodante, e ciò nonostante le parti avessero espressamente previsto il recesso “ad nutum”.
La Suprema Corte, confermando il proprio orientamento sul tema (cfr. sent. n. 1711/2017), con la recente sentenza in commento, ha respinto il ricorso affermando che seppure sia espressamente previsto nel contratto la possibilità per i comodanti di risolvere, su semplice richiesta, il contratto di comodato stipulato in favore di un nucleo familiare, ciò che rileva ai fini della durata del contratto stesso non è la clausola contrattuale del recesso “ad nutum” bensì la durata della destinazione dell’immobile a casa familiare.
Secondo gli Ermellini, infatti, da considerare quale termine del comodato stesso, ciò “non può far desumere la “forma” natura del comodato dalla disciplina contrattuale del recesso, laddove – al contrario – è dall’inquadramento del comodato, nell’uno o nell’altro tipo, che deriva la disciplina del recesso.”
In sostanza, conclude la Corte, se la destinazione dell’immobile è quella di casa familiare del figlio (e poi del coniuge separato) è questa che rileva in ordine alla durata del comodato e non già la clausola contrattuale di “recedebilità ad nutum” che, pertanto, è destinata a rimanere inefficace finché permane quel vincolo di destinazione.
Avv. Ludovica De Falco
La risarcibilità del danno endofamiliare - Avv. Simona Grasso
La Suprema Corte con la sentenza n. 34950/2022, pubblicata il 28.11.2022, è tornata a trattare la questione relativa alla risarcibilità del danno endofamiliare da mancato riconoscimento paterno, chiarendo quale debba essere la corretta analisi da parte dei Giudici di merito per ritenerne la sussistenza.
La vicenda trae origine dal mancato riconoscimento di un figlio concepito dopo un rapporto non protetto, non riconosciuto dal padre biologico pur se informato della gravidanza.
La madre, negli anni, non aveva proposto nessun tipo di azione, procedendo invece direttamente il figlio, una volta divenuto maggiorenne, per chiedere in giudizio anche il risarcimento dei danni per il mancato riconoscimento paterno.
Nella fase di merito, mentre il Tribunale aveva inizialmente riconosciuto al figlio un risarcimento di € 100.000, la Corte di Appello, successivamente investita della relativa impugnazione, aveva invece revocato detta condanna, non ritenendo assolto da parte del figlio l’onere probatorio sullo stesso gravante.
La Suprema Corte, al contrario di quanto assunto dai Giudici di merito, ha ritenuto non essere stato correttamente valorizzato il quadro probatorio acquisito in corso di causa, ovvero la testimonianza della madre ed altri indizi che avrebbero dovuto essere valutati nel loro insieme e non in maniera atomistica, non potendosi ritenere, peraltro, in alcun modo ridotta o esclusa, la responsabilità del padre assente in considerazione del comportamento assunto dalla madre.
Nella parte motiva della sentenza in commento, è stato quindi ribadito il principio secondo il quale la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole, non trova sanzione solo nelle misure tipiche del diritto di famiglia, ma può integrare gli estremi dell’illecito civile, laddove vengano lesi diritti costituzionalmente protetti (nel caso di specie quelli nascenti dal rapporto di filiazione che trovano un elevato grado di tutela negli artt. 2 e 30 della Costituzione, nonché nelle norme internazionali recepite nel nostro ordinamento).
Pertanto, l’illecito endofamiliare – che ben può dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità – è stato definito sussistente qualora l’inadempimento del genitore (sia mediante condotte singole che permanenti), sia stato tale da provocare un complessivo disagio materiale e morale per il figlio, con ulteriori conseguenze pregiudizievoli di natura patrimoniale e non, tra cui l’impossibilità di affermarsi socialmente in maniera più soddisfacente, con eventuale preclusione di un percorso di studi che gli avrebbe consentito una diversa realizzazione professionale ed anche economica.
Tale danno morale necessita ovviamente di prova e la relativa liquidazione, stante la sua natura che ne rende difficoltosa la quantificazione, è certamente consentita anche in via equitativa.
La questione, quindi, allo stato dovrà essere valutata nuovamente nel merito dalla Corte di Appello competente che, sulla base delle precise indicazioni fornite dalla Suprema Corte, dovrà correttamente riconsiderare gli elementi acquisiti, per determinare gli effetti che ha prodotto l’assenza paterna nella vita del figlio.
Avv. Simona Grasso
Reato ex art 570 bis c.p. e adempimento parziale Avv. Maria Cecilia Morandini
La Suprema Corte di Cassazione è stata nuovamente interessata dal tema della violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o divorzio ex art 570 bis c.p.
La vicenda trae origine dalla condanna in appello di un uomo che aveva autonomamente ridotto l’importo del quantum stabilito per i figli minori in sede di separazione giudiziale dal Tribunale, corrispondendo solo un versamento parziale della somma stabilita.
Il ricorrente fondava la richiesta di revisione della condanna in appello sul fatto che lo stesso avesse parzialmente adempiuto al versamento con una somma ridotta rispetto a quanto stabilito dal Giudicante e che, comunque, avesse integrato elargizioni economiche brevi manu alla madre dei figli, continuando ad occuparsi degli stessi nei periodi di sua competenza. L’obbligato, inoltre, sosteneva difficoltà economiche legate a un lungo periodo di disoccupazione, situazione di fatto che, in quanto involontaria, era posta a giustificazione dei mancati versamenti.
Rilevato quanto sopra l’uomo sosteneva che la propria condotta non configurasse il reato di cui all’art. 570 bis c.c., il quale si consuma ogni qualvolta il soggetto non adempia agli obblighi di natura economica scaturenti dallo scioglimento, cessazione e nullità del matrimonio, a prescindere dalle condizioni economiche dei soggetti beneficiari.
Di tutt’altro avviso è stata la posizione della sesta sezione penale della Cassazione. Infatti, con la sentenza n. 43032/2022, la Corte ha rigettato il motivo con cui l'imputato ha tentato di giustificare il proprio inadempimento in quanto lo stesso non ha dimostrato di trovarsi in uno stato di impossibilità assoluta di adempiere.
Sull’attuazione del pagamento parziale dell’assegno stabilito in sede di separazione, gli Ermellini sottolineano che la Corte di Appello avesse correttamente richiamato il principio più volte confermato in sede di legittimità, per il quale il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare si realizza anche quando l'obbligo posto a carico del soggetto viene adempiuto solo in parte. Infatti, non è riconosciuto al soggetto obbligato il potere di ridurre autonomamente quanto dovuto a moglie e figli laddove il relativo quantum sia stato statuito nella sentenza di separazione decisa dal Giudice.
La riduzione automatica del mantenimento per i figli è dunque configurabile come reato ai sensi dell’art. 570 bis c.p.
Avv. Maria Cecilia Morandini
Maltrattamenti in famiglia (Cass. n. 44263/2022) Avv. Simona Bevilacqua
Sussiste il reato di #maltrattamentiinfamiglia anche se nel caso in cui la vittima, pur non più convivente con l’autore del reato, continui ad avere con quest’ultimo un legame conseguente alla presenza di figli.
Con una recente pronuncia, la #CortediCassazione ha confermato l’orientamento già chiarito in diverse occasioni, statuendo come, anche qualora sia venuta meno la convivenza, non solo sia configurabile il reato, ma questo sia anche aggravato dalla presenza dei figli.
Con la pronuncia in esame gli Ermellini, nel respingere il tentativo della difesa di inquadrare la condotta nell’alveo del più lieve reato di stalking, hanno chiarito come, nei casi di cessazione della convivenza, sia in ogni caso configurabile il reato ex art. 572 c.p. di maltrattamenti in famiglia, e non quello ex art. 612 bis (atti persecutori), quando le parti siano legate da un vincolo familiare, connotato anche alla presenza di figli e quindi, all’esercizio della responsabilità genitoriale.
Secondo i Giudici di legittimità, quindi, un rapporto sentimentale non può definirsi concluso qualora la coppia sia unita dalla presenza di figli.
Pertanto, anche successivamente all’interruzione dell’unione, gli ex partner, rimanendo genitori, sono chiamati a relazionarsi in ordine alle esigenze quotidiane dei figli, nell’ottica di garantirgli una crescita serena.
Sent. n. 44263/2022, III Sez. Penale
Avv. Simona Bevilacqua