LEGISLAZIONE GIURISPRUDENZA
Cass. n racc. 4200-23 del 10.2.2023 - Assegno divorzile - Avv. Irene della Rocca
Con una recentissima sentenza, pubblicata il 10.02.2023, la Suprema Corte ha nuovamente affrontato il tema del diritto all’assegno divorzile nel caso in cui la moglie lasci il lavoro dopo il matrimonio, senza un’adeguata motivazione.
Nel caso in esame il Tribunale di Catanzaro aveva negato l’assegno divorzile alla ex moglie, mentre la Corte d’Appello aveva poi stabilito il diritto della stessa a percepire un assegno divorzile di non modesta entità, rispetto al patrimonio delle parti, pari a € 900,00. La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza con rinvio alla Corte di provenienza. La doglianza, accolta dalla Suprema Corte, si è rivolta verso l’omessa valutazione da parte della Corte d’Appello territoriale della scelta operata dalla ex moglie di smettere di lavorare dopo il matrimonio. La Corte di provenienza non aveva valutato quanto la scelta della ex moglie avesse influito sulla disparità economico patrimoniale tra gli ex coniugi, soprattutto avendo riguardo alla natura perequativa - compensativa dell’assegno divorzile, come già ampiamente enucleato con le SS UU 18287/2018, per cui è necessario che per riconoscere l’assegno divorzile che sia effettuato un accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi del coniuge più debole, rapportato alla durata del vincolo matrimoniale (di soli sei anni del caso di specie, valutazione omessa dalla Corte d’Appello di Catanzaro) e alla ripartizione dei ruoli endofamiliari, nonché avendo riguardo al patrimonio personale e/o familiare di entrambi i coniugi (nel caso di specie la ex moglie aveva dei beni della propria famiglia di provenienza)
Alla luce di tutte le valutazioni su esposte la Corte di Cassazione ha deciso di cassare la sentenza, rinviando gli atti alla Corte d’Appello di Catanzaro per valutare correttamente il diritto della ex moglie a percepire l’assegno divorzile e il suo importo, in relazione alla scelta della stessa di non lavorare dopo il matrimonio e alle sue potenzialità reddituali e disponibilità patrimoniali.
Avv. Irene della Rocca
Cass. Civ., Sez. I, ord. 23.1.2023: assegno divorzile - Avv. Anna Bevilacqua
Con la recentissima pronuncia depositata in data 23.1.2023, la Corte di Cassazione ha confermato il principio in base al quale l’ex coniuge che intrattiene una convivenza stabile con l’attuale partner - con il quale porta avanti un effettivo progetto comune, tale da costituire un punto di riferimento anche per il figlio di lei, comprovato da espletata CTU - non ha diritto all’assegno divorzile.
Più in particolare, la Corte ha sottolineato come nella fattispecie la ricorrente ex moglie non possa validamente invocare la funzione perequativo-compensativa dell’assegno, non soltanto perché intrattiene da molti anni una relazione stabile che, evidentemente, le ha consentito di non lavorare e di dedicarsi esclusivamente al volontariato e alla politica, ma anche e soprattutto perché per ben 15 anni non ha mai cercato un lavoro, venendo, così meno ogni esigenza di natura assistenziale da parte dell’ex marito.
La corte ha, altresì, avuto modo di chiarire espressamente che l’effettiva progettualità rappresenta l’elemento costitutivo di una nuova formazione familiare e che questa è l’unica circostanza che l’onerato dell’assegno divorzile deve provare, non essendo, invece, tenuto a dimostrare che il nuovo convivente della ex coniuge contribuisca effettivamente al ménagefamiliare, essendo estraneo ad esso e potendosi ben presumere che la convivenza stabile si fondi su obblighi di assistenza reciproci.
Cass. Civ., Sez. I, ord. 23.1.2023
Avv. Anna Bevilacqua
Bambini in casi di alta conflittualità: quale cambiamento? Daria D'Andreamatteo
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un raddoppiamento dei casi di separazione e divorzio, di cui una buona parte sono percorsi separativi ‘altamente conflittuali’. Solo lo scorso anno al Tribunale di Roma sono arrivati 1.300 nuovi casi di ‘separazioni di fatto’ con elevata conflittualità.
Questi dati confermano quanto osservato nella pratica clinica. Come terapeuta che lavora da anni con il disagio psichico del minore, adolescente o bambino e della famiglia, sono numerose le domande poste in merito al cambiamento di alcune manifestazioni sintomatologiche dei minori e al processo evolutivo di quest’ultimi nonché di alcuni processi comportamentali in conseguenza alla promozione e alla tutela del diritto di bigenitorialità.
Di certo l’elemento della conflittualità acerrima più o meno manifesta, rimane emergente e determinante rispetto ad alcune osservazioni. Analizzando i casi pervenuti presso il centro clinico InsiemeNoi abbiamo osservato una crescita esponenziale delle richieste di valutazione. Negli ultimi due anni sono giunti 96 casi e di questi l’età media dei bambini è tra i 9 e i 12 anni, equamente suddivisi tra maschi e femmine. Di questi, un 10% è stato collocato presso il padre e un altro 10% affidato ai servizi sociali. Il 20% ha rifiutato un percorso terapeutico dopo aver concluso la valutazione; il 23% ha interrotto il percorso una volta attivato, mentre un 10% si è rifiutato di avviare una valutazione subito dopo aver preso contatto con la struttura.
Questi numeri ci mettono di fronte una riflessione importante rispetto all’evidente grado di fallimento che questi percorsi incorrono qualora non si dia priorità alla eventuale riduzione o risoluzione, nel migliore dei casi, del conflitto genitoriale, che necessariamente porta a non vedere e riconoscere i bisogni del minore. Spesso, infatti, sono situazioni che arrivano dopo lunghi e faticosi percorsi di CTU, in cui appare poco chiaro quale sia la differenza tra una valutazione in campo peritale e una valutazione clinica, confondendo spesso i piani o rivolgendosi al clinico come se fosse un giudice che deve stabilire quale sia il genitore più adeguato. Il minore in questione non sembra quindi essere visto dai genitori ma diviene nuovamente e come in ogni situazione, strumento di contesa tra i genitori stessi.
Ma tutto questo come si traduce nel mondo interno del minore? Cosa comporta?
Sono bambini che portano una sofferenza importante e profonda, che si manifesta attraverso una varietà di sintomi, tra fobia scolare, difficoltà nell’addormentamento, ansia generalizzata e attacchi di panico, esplosioni di rabbia e chiusure rispetto all’esterno. Evidenziano un’assenza di centralità conforme al caos e al disorientamento dell’ambiente esterno. Non di rado, infatti, sono proprio i minori ad esprimere una resistenza al trattamento, facendosi porta voce di un desiderio inconscio del genitore, anticipandolo, nell’illusione di evitare una ennesima delusione, essendone lui l’artefice. Forse nell’immagine persecutoria che ne deriva, rispetto ad ogni tipo di intervento proposto, si esprime la profonda difficoltà dell’adulto di oggi di mettere da parte ferite narcisistiche rispetto ad un immagine familiare e del proprio figlio non corrispondenti alla propria. Questo processo necessita inevitabilmente la richiesta di fare un passo indietro, un disinvestimento sul conflitto, non come espressione di una arresa e di una sconfitta, ma come possibilità di cambiamento e di progresso.
Solo così si può dare accesso alla sofferenza del minore e la possibilità di costruire una “casa” solida, affidabile e flessibile rispetto alle esigenze del bambino.
Efficacia del recesso operato ad nutum sulla casa familiare-Avv.De Falco
La Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n. 350/2023 pubblicata in data 10.01.2023 è tornata ad affrontare la questione relativa all’efficacia del recesso operato “ad nutum” dai proprietari di un immobile precedentemente concesso in comodato al figlio e successivamente assegnato, in sede di separazione, alla ex nuora in qualità di genitore collocatario delle figlie minori.
Nel caso di specie, una coppia di coniugi aveva convenuto dinanzi al Tribunale di Treviso il proprio figlio e la nuora per ottenere da questi ultimi la restituzione di un immobile precedentemente concesso loro in comodato. Gli attori, infatti, deducevano di aver comunicato, in virtù dell’art. 3 del contratto di comodato, il recesso “ad nutum” dal contratto stesso. Nelle more del giudizio di primo grado, tuttavia, le parti convenute si separavano consensualmente e l’immobile de quo veniva assegnato alla ex nuora.
Il Giudice di prime cure, in accoglimento della domanda attorea, accertava l’avvenuta cessazione del contratto di comodato per esercizio del diritto di recesso “ad nutum” contrattualmente previsto e pertanto condannava i convenuti alla restituzione dell’immobile ai proprietari.
Tale pronuncia veniva successivamente riformata dalla Corte di Appello di Venezia la quale riteneva che si trattava “inequivocabilmente di comodato sorto per uso determinato e di conseguenza per un tempo determinabile per relazione in considerazione della destinazione a casa familiare.”
Il Collegio sottolineava come la destinazione dell’immobile a casa familiare fosse “palesata” dal fatto che: il contratto di comodato era stato stipulato pochi mesi dopo il matrimonio dei comodatari (tra cui il loro figlio); la durata del contratto si era protratta per numerosi anni nonché dal fatto che la richiesta di revoca dal contratto giungeva in coincidenza con la disgregazione familiare. La Corte veneta, inoltre, osservava che la clausola di recesso “ad nutum” contenuta nel contratto di comodato era generica ed in contrasto con la causa propria e prevalente del negozio e dunque destinata a rimanere inefficace fintantoché permanesse la destinazione dell’immobile a casa familiare.
Avverso tale decisione i proprietari dell’immobile proponevano ricorso per Cassazione lamentando che la Corte di Appello avrebbe ingiustificatamente negato valore alla clausola del contratto che prevedeva il diritto di recesso “ad nutum” ritenendo, al contrario, sussistente il diritto di recesso solo per urgente e imprevedibile bisogno del comodante, e ciò nonostante le parti avessero espressamente previsto il recesso “ad nutum”.
La Suprema Corte, confermando il proprio orientamento sul tema (cfr. sent. n. 1711/2017), con la recente sentenza in commento, ha respinto il ricorso affermando che seppure sia espressamente previsto nel contratto la possibilità per i comodanti di risolvere, su semplice richiesta, il contratto di comodato stipulato in favore di un nucleo familiare, ciò che rileva ai fini della durata del contratto stesso non è la clausola contrattuale del recesso “ad nutum” bensì la durata della destinazione dell’immobile a casa familiare.
Secondo gli Ermellini, infatti, da considerare quale termine del comodato stesso, ciò “non può far desumere la “forma” natura del comodato dalla disciplina contrattuale del recesso, laddove – al contrario – è dall’inquadramento del comodato, nell’uno o nell’altro tipo, che deriva la disciplina del recesso.”
In sostanza, conclude la Corte, se la destinazione dell’immobile è quella di casa familiare del figlio (e poi del coniuge separato) è questa che rileva in ordine alla durata del comodato e non già la clausola contrattuale di “recedebilità ad nutum” che, pertanto, è destinata a rimanere inefficace finché permane quel vincolo di destinazione.
Avv. Ludovica De Falco
La risarcibilità del danno endofamiliare - Avv. Simona Grasso
La Suprema Corte con la sentenza n. 34950/2022, pubblicata il 28.11.2022, è tornata a trattare la questione relativa alla risarcibilità del danno endofamiliare da mancato riconoscimento paterno, chiarendo quale debba essere la corretta analisi da parte dei Giudici di merito per ritenerne la sussistenza.
La vicenda trae origine dal mancato riconoscimento di un figlio concepito dopo un rapporto non protetto, non riconosciuto dal padre biologico pur se informato della gravidanza.
La madre, negli anni, non aveva proposto nessun tipo di azione, procedendo invece direttamente il figlio, una volta divenuto maggiorenne, per chiedere in giudizio anche il risarcimento dei danni per il mancato riconoscimento paterno.
Nella fase di merito, mentre il Tribunale aveva inizialmente riconosciuto al figlio un risarcimento di € 100.000, la Corte di Appello, successivamente investita della relativa impugnazione, aveva invece revocato detta condanna, non ritenendo assolto da parte del figlio l’onere probatorio sullo stesso gravante.
La Suprema Corte, al contrario di quanto assunto dai Giudici di merito, ha ritenuto non essere stato correttamente valorizzato il quadro probatorio acquisito in corso di causa, ovvero la testimonianza della madre ed altri indizi che avrebbero dovuto essere valutati nel loro insieme e non in maniera atomistica, non potendosi ritenere, peraltro, in alcun modo ridotta o esclusa, la responsabilità del padre assente in considerazione del comportamento assunto dalla madre.
Nella parte motiva della sentenza in commento, è stato quindi ribadito il principio secondo il quale la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole, non trova sanzione solo nelle misure tipiche del diritto di famiglia, ma può integrare gli estremi dell’illecito civile, laddove vengano lesi diritti costituzionalmente protetti (nel caso di specie quelli nascenti dal rapporto di filiazione che trovano un elevato grado di tutela negli artt. 2 e 30 della Costituzione, nonché nelle norme internazionali recepite nel nostro ordinamento).
Pertanto, l’illecito endofamiliare – che ben può dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità – è stato definito sussistente qualora l’inadempimento del genitore (sia mediante condotte singole che permanenti), sia stato tale da provocare un complessivo disagio materiale e morale per il figlio, con ulteriori conseguenze pregiudizievoli di natura patrimoniale e non, tra cui l’impossibilità di affermarsi socialmente in maniera più soddisfacente, con eventuale preclusione di un percorso di studi che gli avrebbe consentito una diversa realizzazione professionale ed anche economica.
Tale danno morale necessita ovviamente di prova e la relativa liquidazione, stante la sua natura che ne rende difficoltosa la quantificazione, è certamente consentita anche in via equitativa.
La questione, quindi, allo stato dovrà essere valutata nuovamente nel merito dalla Corte di Appello competente che, sulla base delle precise indicazioni fornite dalla Suprema Corte, dovrà correttamente riconsiderare gli elementi acquisiti, per determinare gli effetti che ha prodotto l’assenza paterna nella vita del figlio.
Avv. Simona Grasso